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Bra (Cuneo), Passeggiando per la mia piccola città nei giorni precedenti il Natale saltavano agli occhi negozi, solitamente presi d’assalto per gli ultimi regali, molto più vuoti, e il consueto brulicare dei ritardatari del dono un po’ meno intenso. Per contro, a dominare strade e marciapiedi erano i furgoni dei corrieri, trafelati nel distribuire a domicilio pacchi e pacchetti. Il segno dei tempi. Ciò che sta cambiando è l’aspetto stesso delle nostre città e della nostra socialità. Se con l’epopea dei supermercati e degli ipermercati abbiamo svuotato i nostri centri storici per riversarci in capannoni periferici pieni di ogni ben di dio, oggi, trent’anni dopo, assistiamo a una nuova trasformazione epocale. Il consumo abbandona la dimensione della relazione diretta tra chi compra e chi vende per diventare una pratica eterea, che annulla la distanza tra un clic sulla tastiera di un pc o di uno smartphone e la materializzazione dell’oggetto fisico. Eppure, dietro la facilità di acquisto e la consegna immediata esiste un mondo a tinte fosche. Da una parte sorgono magazzini centralizzati giganteschi per soddisfare necessità di stoccaggio e di “prossimità” alla consegna sempre più impellenti. Un sistema di distribuzione ad alto impatto ambientale per le migliaia di chilometri imposti da consegne polverizzate e aggravato dall’incidenza dei resi gratuiti. Dall’altra nasce un nuovo sottoproletariato delle consegne, un esercito di facchini e corrieri impiccati da tempi di delivery stabiliti da algoritmi infallibili e costretti a ritmi di lavoro impressionanti. Sempre più diffusi sono i servizi di consegna a domicilio dei pasti, che utilizzano squadroni di ragazzi in bicicletta che con qualunque meteo non possono sgarrare di un minuto sulla loro serratissima tabella per poter portare a casa, a fine giornata, 6 euro all’ora. Infine, il convitato di pietra al pranzo del consumo online: i servizi sono concentrati in pochissime mani che si spartiscono guadagni enormi con minime ricadute su chi sta alla base della piramide. Multinazionali tassate meno dell’edicolante sotto casa o, addirittura, fiscalmente domiciliate all’estero per limitare al minimo il prelievo fiscale. A farne le spese sono le nostre città. Siamo di fronte a un vero e proprio bollettino di guerra quotidiano: librerie, alimentari, tabaccherie, edicole. L’elenco delle attività che ogni giorno chiudono o vedono scricchiolare la propria stabilità è lungo e in continua crescita. Le stesse organizzazioni di categoria che rappresentano i commercianti non sempre hanno saputo cogliere la portata di questo processo e agire di conseguenza. Eppure, ci rendiamo conto di che cosa sta succedendo? Siamo consapevoli, noi e le nostre istituzioni, che il nostro paesaggio urbano si sta sgretolando in una maniera senza precedenti? Se l’Italia perde le botteghe, noi perdiamo l’Italia per come la conosciamo. Se le nostre città perdono i centri storici, non restano che enormi sobborghi residenziali. Se noi perdiamo le nostre relazioni di vicinato, non restiamo che individui consumatori. Per fortuna un ruolo da giocare ci resta, e può essere quello di protagonisti. Non per arrestare un processo che è storico e probabilmente ineluttabile, ma per dirigerlo e ripensarlo affinché sia positivo e promettente per tutti. Dobbiamo pensare e realizzare una nuova economia, fondata sui beni comuni e relazionali. In questo le botteghe di prossimità sono un baluardo che non dobbiamo e non possiamo perdere. Non solo nei centri urbani, ma anche e soprattutto nelle aree marginali che insieme ai negozietti vedono sparire un pezzo di quella civiltà artigiana che è l’identità del nostro paese. Un esempio di successo sono i mercati dei contadini, che fioriscono perché offrono un bene insostituibile: la relazione diretta tra chi produce il cibo e chi lo consuma. E questo non impedisce ai contadini di vendere anche online. Forse è davvero il momento di immaginare uno “slow shopping”, un modo nuovo di approcciare il consumo che sia rispettoso dell’ambiente e delle persone che di commercio vivono. Una mobilitazione che guardi al futuro e non al passato, che veda la bottega come paradigma di una multifunzionalità che solo gli strumenti propri della contemporaneità possono offrire e di cui i giovani sono interpreti principali e privilegiati. La modernità risiede nella capacità di usare la tecnologia per vivere meglio, non per abdicare al nostro essere cittadini e ridurci a consumatori senza volto né voce.
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